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Si pappada? In sardo significa due cose a) Si mangia? b) Vi prude? E così che con un pizzico di ironia voglio raccontare di cucina e suggerire ricette e dispensare qualche buon consiglio popolare. Quindi sia se avete fame, se siete curiosi o se vi prude della vaghezza questo è comunque il blog che fa per voi!

martedì 14 settembre 2010

Per farla finita col concetto di identità





Di Riccardo Mura

Per farla finita col concetto di identità



«Dire di due cose che sono identiche è
un’assurdità e dire di una cosa che è identica
a sé stessa significa non dire nulla.» ludwig wittgenstein

«Ci sono mille possibili io in me,
ma non posso rassegnarmi a
esserne solamente uno.» andré gide

«Un uomo onesto è un uomo mescolato.»
«Posso comprendere gli altri solo perché
io sono altro da me.»
michel montaigne

«Vivere è essere un altro. Sentire non è possibile se si sente
oggi come si sentiva ieri: sentire oggi la stessa cosa
di ieri significa non sentire. […] Questa aurora è la prima del mondo […]
per la prima volta esiste questa ora, questa luce, questo essere che è il mio.
Ciò che sarà domani sarà altro e ciò che io vedrò sarà visto da occhi ricomposti e
colmati da una nuova visione. bernardo soares (fernando pessoa)


Il primo libro che ho letto di Franciscu Sedda è La vera storia della bandiera dei sardi, un viaggio incredibile nella romanzesca storia della bandiera dei Quattro Mori, un viaggio che attraverso i suoi inevitabili «scali» dà la possibilità di fare delle incursioni mozzafiato nella storia generale del nostro popolo. Al ritorno da questa esperienza esaltante, mi sono impelagato nella lettura dei primi due libri di Franciscu –Tracce di memoria e Tradurre la tradizione–, anche quelli libri interessantissimi, ma che mi hanno procurato non pochi mal di testa, visto il loro taglio meno divulgativo, piú da semiologo.
I sardi sono capaci di amare, invece, mi ha provocato ben altri disagi. La prima parte –intitolata Nazione e narrazione– seppur breve, mi ha rivoltato… non nel senso di disgustarmi, ma in quello d’indurmi alla ribellione, innanzitutto estetica.
La seconda parte m’ha fatto venire delle manie di persecuzione. Franciscu mi appariva con gli occhi iniettati di sangue, con una lanterna in una mano e la forca nell’altra, alla caccia d’ogni anfratto oscuro della «coscienza infelice» di noi sardi, passando al setaccio tutte le nostre ipocrisie e i nostri paradossi. Ammetto che m’ero illuso d’essere del tutto purificato da certe infelicità… e invece mi ha costretto ad alcuni autodafè.
Anche la terza –Addio ai fantasmi–, strutturata come un vero e proprio inferno dantesco, mi ha rivoltato… stavolta proprio nel senso di muovermi al disgusto, all’amarezza, talvolta alla rabbia. E non tanto per il nostro passato remoto –dato che non credo abbia proprio senso provar rabbia per come sono andate le cose nella storia secolare–, ma per la nostra storia recente, per quella sí, credo che la rabbia sia un sentimento legittimo, non fosse per altro ch’è una storia che nessuno ci racconta, ed è fatta da personaggi vivi… o continuamente riesumati.
Fortuna che, nelle ultime due parti, questa rabbia, quest’amarezza si sono sciolte, o meglio Franciscu è riuscito ad alchimizzarle in un sentimento positivo e propositivo a cui non voglio dare un nome, adesso, ma che ho scoperto esistere nel nostro lessico e nei nostri cuori, almeno fino a seicent’anni fa, e forse chissà che oggi non si torni a scriverlo sul nostro vocabolario.
Che dire? I sardi sono capaci di amare è un libro entusiasmante. Fin troppo bello. «Mantènghia» dovrei dire, perché ho provato persino invidia per quant’è ben scritto. Tanto che, alla seconda lettura, mi sono affannato alla ricerca di qualche difetto. Con tanta ostinazione che, alla fine, il pelo nell’uovo l’ho trovato.
E questo pelo è la parola identità, il concetto di identità. Un concetto che –a esser sinceri­– non m’ha mai convinto. Tendo sempre a evitarlo, l’ho sempre trovato al tempo stesso impreciso e insidioso. Nonostante i due intellettuali sardi che piú stimo –Franciscu Sedda e Bachisio Bandinu– lo utilizzino piú volte nei loro scritti e nei loro discorsi. Certo, devo dare atto a questi due signori che lo usano con parsimonia e con diversi distinguo, coi puntini sulle i, diciamo. E forse, però, –a me sembra– con un certo imbarazzo. Franciscu, per esempio, nelle prime pagine di questo libro scrive che «non ci serve un’identità definitiva, ma un continuo processo d’identificazione positiva, anzi, propositiva», oppure, piú in là, dice che «la nostra identità è davanti a noi» –quindi, in qualche modo, da costruire. Però intanto quella parola indigesta c’è sempre: identità.
Per fortuna, anni fa, mi sono imbattuto in un libretto illuminante, edito dalla Eleuthera, intitolato Identità e métissage – Umani al di là delle appartenenze, dell’antropologo francese François Laplantine, e questo libretto m’ha incoraggiato a fare questa riflessione.
Per deformazione professionale, in quanto linguista, parto dal dizionario. Leggo dal De Mauro:

identità – 1. uguaglianza assoluta, corrispondenza perfetta – 2. l’insieme dei caratteri peculiari che contraddistinguono un individuo, un gruppo d’individui e sim. essere consapevole della propria i., perdere la propria i., l’identità culturale d’una nazione – 3. l’i. psicologica è il senso del proprio essere come soggetto continuo nel tempo e distinto da tutti gli altri.
Sinonimi: coincidenza, concordanza, conformità, corrispondenza, uniformità. Contrari: differenza, diversità.

La seconda accezione –«insieme dei caratteri peculiari che contraddistinguono un individuo o un gruppo d’individui»– è quella che c’interessa. Ma non trascurerei neanche le altre: le parole che usiamo sono importanti: hanno sempre un preciso significato originario, e, per quanto le si possa portare a spasso per designare mille altre cose, quel significato se lo portano sempre appresso, con tutte le implicazioni sulle nostre emozioni e sul procedere dei nostri pensieri. Ecco perché questa, a mio parere, non è una questione di lana caprina.
Laplantine fa notare innanzitutto come questa seconda accezione del termine «identità» si sia sviluppata molto recentemente e sia proliferata in maniera sorprendente, associandosi a sostantivi e aggettivi d’ogni tipo: «crisi d’identità», «ricerca dell’i.», «costruzione dell’i.», «perdita dell’i.», «disturbo dell’i.», «difesa dell’i.», «rivendicazione dell’i.»; «identità sessuale», «i. confessionale»… Tanto da apparire sempre piú confusa e impalpabile. Tanto che, forse, è una parola che ormai non chiarisce piú nulla, ma semmai dissimula. «Identità» è diventata una sorta di parola-jolly utile piú per designare che per comprendere. È sulla bocca di tutti; ma giusto lí, sulla bocca.
L’identità è un concetto tipico della filosofia platonica, ripreso dalla filosofia medievale (sopratutto scolastica), e comunque originariamente applicata alla metafisica, alla teologia. Solo recentemente è avvenuto questo transfert abusivo verso le scienze sociali. Nelle quali, però, si rivela inconsistente e inutile ai fini della ricerca.
Inoltre –sempre secondo Laplantine–, il pensiero identitario è pericoloso, perché trova terreno fertile negli estremismi, tipicamente nei nazionalismi, che sono figli del rifiuto o dell’inclusione forzata. Il guaio è che è una nozione di grande povertà epistemologica ma di grande efficacia ideologica. Vien da sospettare che questa parola venga usata «ogniqualvolta si voglia evitare di pensare l’alterità che è in noi, il flusso del molteplice, il carattere cangiante e contraddittorio del reale, l’infinità dei punti di vista»… E siccome le debolezze umane si ripresentano continuamente cambiando nome e connotati, chi mi dice che dietro il pensiero identitario non ci sia il solito vecchio pensiero razzista, reazionario e intollerante tipico delle società in crisi?
Ecco, la crisi. La crisi forse ci può aiutare a capire meglio questa impressionante metastasi della parola «identità». Perché in effetti questa parola compare proprio nelle società in crisi, nelle culture in decadenza. Forse perché l’identità semplifica, definisce, protegge, cristallizza, ordina il caos, s’oppone allo sfacelo… insomma, in una parola, rassicura!
L’identità ama la
copula… chi non la ama, penserà qualcuno… ma io intendo la copula grammaticale, la «è» con l’accento… l’identità identifica, dice «questo è questo e non altro», l’identità odia invece la «e» congiunzione, in quanto apre altre possibilità, apre all’alterità; mentre gli preferisce la «o» di disgiunzione: «o questo o quello: scegli!»; oltre al verbo «essere» ama il verbo «avere» e gli aggettivi possessivi: «io ho questo», «questo è mio».
L’identità guarda all’origine dell’individuo o del gruppo sociale, è un pensiero del passato, che distoglie dal guardare avanti, dal concentrarsi sulla crescita, sul cambiamento, sul divenire. È un paradossale avanzare a ritroso nel tempo, un rischioso camminare avanti guardando indietro.
Ma vorrei tentare di concretizzare questo pensiero… Concentriamoci sull’individuo. Se pensiamo all’uomo identitario, ci troveremo di fronte l’uomo «tutto d’un pezzo», senza ombra d’incertezza o debolezza, definitivamente maturo e determinato; un uomo (o una donna) refrattario all’ironia, all’umorismo; perché si prende sul serio, è rigido, e, in quanto tale, è comico (per gli altri). Anzi è grottesco, perché è comico e drammatico al tempo stesso. Provoca il riso amaro, il riso senza gioia, il riso forzato (…sardonico?).

L’uomo identitario è ridotto a essere giusto un «rappresentante» della «comunità» a cui «appartiene». Però mi chiedo come un uomo possa accontentarsi d’esser soltanto una
rappresentazione. In fondo, l’identità non è nient’altro che la rappresentazione che un individuo dà di sé stesso, è la sua immagine. Ma un’immagine è una ripetizione, una riproduzione, una duplicazione della realtà, inevitabilmente imprecisa e semplificata, possibile soltanto riconducendo le differenze alla similitudine e lo sconosciuto al conosciuto. Insomma, «la rappresentazione cattura la realtà con una rete dalle maglie tanto larghe che i pesci piccoli ci passano attraverso» (e non sarà un caso che i pesci piccoli sono sempre i piú buoni…). In questo modo blocca il pensiero della differenza, che è all’origine dell’arte e della scienza.
L’identità e la rappresentazione c’illudono che ci sia una realtà stabile e solida, e cosí facendo ci consolano, c’istupidiscono, ci distolgono dall’esercizio critico del pensiero, e ci rendono politicamente disabili.
Insomma, queste due nozioni sono povere e falsamente realiste, politicamente reazionarie. Sono nozioni vigliacche, sorte dalla paura del presente. Quella contemporaneità del métissage –per dirla sempre con Laplantine–, del meticciato, dell’ibridazione, che autori geniali come Kafka, Beckett, Pessoa, Joyce, Artaud, Carmelo Bene, e, perché no, Sergio Atzeni hanno saputo cogliere e interpretare egregiamente nelle loro opere.

Ma non voglio rendere le cose piú semplici di quelle che sono. È indiscutibile che la globalizzazione economica e culturale abbia portato a un impoverimento impressionante del patrimonio di diversità e complementarità delle culture mondiali. Bandinu e Sedda hanno piú volte sottolineato l’esigenza, anche per i sardi, di conciliare il globale col locale, di realizzare il cosiddetto «glocale». Se si sente il bisogno di parlare di «identità sarda», di «sardità», è perché c’è indubbiamente un diffuso
sentimento di perdita, e quindi d’angoscia, di sradicamento, di dis(-)integrazione. Sentimenti che abbiamo il dovere di rilevare, ma che dobbiamo sopratutto saper interpretare. E per saperlo fare nel migliore dei modi dobbiamo scegliere le parole e le direzioni di senso appropriate.
Dice Laplantine:

La specificità di una cultura o di un individuo è indiscutibile, ma bisogna tener presente che questa proviene dalle infinite combinazioni che si possono produrre, dalla riformulazione di molteplici eredità, che non sono mai delle essenze, ma semmai dei processi di acquisizione, elaborazione e interpretazione costanti.

Quindi propongo a tutti voi di farla finita col concetto d’identità. Di eliminarlo dal vocabolario delle scienze sociali. Di sostituirlo, di volta in volta, con locuzioni piú giuste, che potranno essere, chessò… «senso d’appartenenza», piuttosto che «sentimento comunitario», «consapevolezza culturale», piuttosto che «coscienza nazionale», «pensiero/sentimento della differenza». O perlomeno, quest’identità problematizziamola, relativizziamola il piú possibile, tenendo sempre bene a mente che le «crisi d’identità», i «disturbi dell’identità» sono delle malattie, in quanto tali passeggere (si spera!), e che il «sentimento dell’identità» è solo un momento necessario nello sviluppo cognitivo d’un bambino, che ha certamente bisogno di riconoscersi in quanto individuo per potersi relazionare in modo sano con le persone e gli oggetti attorno a lui.

Una volta cosciente di sé, però, l’essere umano guarda avanti, e se guarda indietro lo fa solo per capire qual è il senso del suo percorso, qual è la prossima direzione da prendere. Un uomo sufficientemente maturo (ma abbastanza innamorato della propria immaturità da non cascare a terra come, appunto, una «pera cotta») si rende conto di non essere soltanto il prodotto di un’unione di gameti, con addosso il vestito dell’educazione e i sedimenti mentali d’una serie d’esperienze; un uomo sufficientemente (im)maturo capisce che lui è anche –e forse sopratutto–
quello che gli manca, quel desiderio che lo muove verso l’ignoto, verso la costruzione d’un altro sé. Alla faccia dell’identità! L’identità è lo specchio fin troppo realista, è il «bobbottu» che lo perseguita, che vuole acchiapparlo per dirgli «tu sei cosí, tu sei questo, hai tutti questi limiti e queste debolezze, non sarai mai altro, rassegnati!». L’identità –altroché– bisogna lasciarsela indietro, depistarla, abbandonarla sul molo con tutti i suoi pesanti bagagli!

Lo stesso succede a una collettività nazionale: deve riconoscersi, deve essere consapevole della propria «individualità» per potersi rapportare serenamente e costruttivamente con le altre comunità nazionali. Ma questo dovrebbe essere solo un passaggio necessario. Una volta conquistata questa coscienza, non c’è identità che tenga: c’è solo «sa virtudi de s’amori», «la viltú di l’amori» (ecco il «lemma» che Franciscu Sedda c’invita a reintrodurre nel nostro vocabolario personale e collettivo), c’è il desiderio d’unione e di scoperta: il viaggio avvincente d’una persona o d’un popolo libero, e possibilmente felice.




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