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Si pappada? In sardo significa due cose a) Si mangia? b) Vi prude? E così che con un pizzico di ironia voglio raccontare di cucina e suggerire ricette e dispensare qualche buon consiglio popolare. Quindi sia se avete fame, se siete curiosi o se vi prude della vaghezza questo è comunque il blog che fa per voi!

martedì 14 settembre 2010

Recensione di Maltinu Dibeltulu



Giovanni Nonnis, Guerrieri


Presentazione de "I sardi sono capaci di amare" Tempio 20 agosto 2010

Innanzitutto vorrei ringraziare tutti per essere qui presenti stasera. Oltre al piacere di presentarvi Franciscu Sedda, docente di Semiotica all’Università di Roma “Tor Vergata” e uno tra gli autori sardi contemporanei di maggiore spessore e originalità, vorrei proporvi brevemente alcune idee, alcune connessioni a cui ho pensato tra l’argomento del suo libro e la nostra città. Infatti con la mia introduzione vorrei costruire un ponte tra voi, cittadini tempiesi del 2010, e Franciscu.
Per questo motivo ringrazio anche Ornella Demuru con Kita Edizioni, e Riccardo Mura, per essere qui con noi. Rivolgo inoltre un ringraziamento speciale all’assessorato alla Cultura, Spettacolo, e Sport del Comune di Tempio che ha messo a disposizione i locali dell’ExMè per questo incontro.
Poco fa ho parlato di un ponte, appunto, un ponte che colleghi la nostra realtà cittadina, che siamo abituati a riconoscere come la culla della civiltà Gallurese, a un fenomeno culturale che negli ultimi anni si sta diffondendo in tutta la Sardegna. Mi riferisco a una reinvenzione, a una traduzione, e a una rilettura delle nostre tradizioni e delle nostre storie locali nei termini di un’ottica globale. Ma che cos’è un’ottica globale? In due parole, possiamo pensarla come una visione che prende i nostri processi di identificazione culturale, storica e politica e li mette in relazione con le dinamiche che sono emerse nell’era del capitalismo globale, in cui abbiamo iniziato a vivere da ormai diversi decenni. Un’era in cui qualunque prodotto o immagine, qualunque persona o idea, è in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta in un solo giorno o in poche ore, se non addirittura in un solo secondo tramite internet.
Per mettere la prima pietra, per costruire le prime fondamenta di questo ponte, vorrei quindi leggervi un passo dal libro di Franciscu. Un passo che mi ha particolarmente colpito perchè introduce il filo conduttore del libro, che possiamo capire meglio analizzandolo brevemente da un punto di vista psicanalitico. Il filo conduttore del libro, appunto, comprende il tema di un trauma, di un lutto, di un dolore tale che non ci lascia altra scelta se non di dimenticarlo, di rimuoverlo. Allo stesso tempo, una volta che abbiamo rimosso il trauma, cerchiamo delle soluzioni ai nostri problemi, e a volte pensiamo di averle trovate. E però queste soluzioni temporanee eliminano solo il sintomo. In realtà il problema alla radice non viene eliminato, e quando gli stessi o nuovi problemi emergono, vengono ancora una volta condizionati e imprigionati dall’energia, dalla catarsi del trauma iniziale.
E nonostante questo trauma sia rimosso e finisca in qualche anfratto nascosto del nostro inconscio, e che quindi fatichi, ovviamente, a tornare a galla alla coscienza, ogni volta che il meccanismo di censura della coscienza stessa abbassa le difese, ecco che il rimosso risale a galla. Per esempio, possiamo pensare al meccanismo di censura politica su internet. A seguito di qualche evento traumatico, come uno scandalo, le manifestazioni per un G8, o le contestazioni di alcune categorie di lavoratori, un governo decide di mettere in atto delle misure di controllo, come la censura di un particolare contenuto. Ma con una migliore tecnologia, un software speciale, o semplicemente con l’allentamento della censura da parte del governo, gli utenti di internet possono tornare ad usufruire dell’oggetto rimosso.
Ma nel nostro caso il problema è che tornando a galla, l’oggetto rimosso dalla memoria è trasfigurato. E non solo è irriconoscibile alla nostra coscienza. La coscienza stessa lo riconosce come se fosse la realtà delle cose. E quindi, il problema che normalmente incontriamo è che ci illudiamo che quello che ricordiamo sia veramente la nostra esperienza passata, e che questo ricordo che riemerge sia la registrazione fedele della nostra memoria. E sebbene continuiamo a rimuovere il trauma iniziale con precisione e costanza, con quella stessa azione del ricordare non facciamo altro che mettere in pratica ciò che in psicanalisi viene detto “coazione a ripetere”. Questo vuol dire che più cerchiamo di dimenticare, più l’energia prodotta da questa azione ci induce a ripetere la stessa esperienza traumatica, a commettere gli stessi errori nel nome di una memoria che è parziale e corrotta, sebbene essa si manifesti illusoriamente come registrazione fedele del nostro passato.
Ma lasciando per un momento la psicanalisi e tornando a noi, in parole spicciole, cos’è stato questo trauma nella coscienza dei sardi? E prima ancora, cos’è che è stato rimosso, che siamo ancora costretti a rimuovere, dalla nostra coscienza? In che modo, nel nostro tentativo di affermare la nostra identità, ripetiamo l’errore iniziale? Quale meccanismo s’innesca per cui la memoria ci tradisce, tirandoci questi brutti scherzi?
Ecco quindi il passo tratto dal paragrafo di Franciscu sulla “megalomania”:

È evidente che c’è del marcio in Sardegna; che nullità e abnormità sono il segno che c’è qualcosa che non va; che questa esaltazione è una compensazione per un trauma rimosso che non riusciamo a far emergere pienamente alla coscienza, un palliativo contro una ferita profonda che non riusciamo a curare se non accallonandoci con qualche potente anestetico. Invece di fare i conti con il dolore e il lutto, e finalmente liberarcene, lo abbiamo fatto diventare normale e quotidiano non-senso. […] C’è qualcosa d’altro, c’è qualcosa là in mezzo, o meglio, altrove, che ci appartiene. Che noi dobbiamo fare nostro. C’è qualcosa oltre la scissione continente-regione…c’è una nazione

Il rimosso di cui vi parlavo poco fa è proprio la nazione. Ma quale nazione? Come scopriremo tra poco, si tratta della nazione sarda. Visto che questa nazione l’abbiamo dimenticata, o meglio, nella nostra memoria emerge trasfigurata, trasformata in qualcosa d’altro, adesso la domanda che potremmo porci è un’altra. Quanti di noi qui presenti, per esempio, ricordano la nazione sarda, o anche solo di aver letto o sentito la parola “sarda” assieme alla parola “nazione”? La nazione sarda, una nazione in cui in passato ci siamo riconosciuti come popolo, che abbiamo amato, che abbiamo criticato, che abbiamo governato, e per la quale abbiamo combattuto uniti in diversi momenti cruciali della nostra storia? Quanti di noi la ricordano? Se pensiamo ai meccanismi di censura di cui abbiamo parlato poco fa, forse il fatto che non la ricordiamo significa che non sia mai esistita? Siamo veramente sicuri che non sia invece la nostra memoria storica recente, e il modo in cui ci siamo raccontati negli ultimi cento anni, che ci sta tirando qualche brutto scherzo? E se invece la nazione non la ricordassimo proprio perché è stata minuziosamente rimossa dalla nostra memoria storica? Potrebbe essere. Ma se non possiamo affermare che abbiamo rimosso la nazione sarda direttamente per via di un trauma, di un lutto, di un dolore che non riusciamo più ad affrontare, possiamo invece dire con sicurezza che questo trauma ha messo le condizioni primarie affinché il nostro inganno mnemonico si manifestasse.
Ora arriviamo subito a scoprire qual è stato questo trauma. E come seconda pietra, e magari anche con un po’ di cemento armato per i pilastri del nostro ponte, vorrei raccontarvi un breve aneddoto di qualcosa di curioso, o che almeno a me è parso tale, e che mi è capitato ai primi del mese di Giugno scorso non appena sono rientrato in Sardegna dagli Stati Uniti.
Premetto che negli ultimi due anni, per motivi di ricerca, ho consultato moltissimi testi sulla Sardegna Ottocentesca, di autori sardi e no, e mi sono imbattuto, oltre che in molti libri di Emilio Lussu e di Camillo Bellieni, che come sappiamo sono i leader storici del Partito Sardo d’Azione, ho anche trovato un libro di uno dei loro amici più intimi dai tempi della Grande Guerra. Questo libro è Fanterie sarde all’ombra del tricolore e fu scritto nel 1934 dal tempiese Alfredo Graziani (1892-1950). Graziani fu comandante della XII compagnia della Brigata Sassari e poi esponente cittadino del partito fascista nei primi anni ’20. Forse alcuni di voi ricordano Graziani per il suo soprannome, “Tenente Scopa,” oppure hanno letto il libro di Lussu Un anno sull’altipiano, in cui Lussu racconta le imprese di Graziani tra le trincee chiamando con il “nickname” “Tenente Grisoni.” … [strana assonanza con Graziani]
Insomma, tornando a noi, mentre passavo al Parco delle Rimembranze per andare alla biblioteca comunale, mi sono fermato a vedere il monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale, quello all’angolo con Via Limbara davanti al Tribunale della Provincia Olbia-Tempio, che non avevo mai visto bene. Sapevo che nel Parco, chiamato delle Rimembranze proprio per ricordare i caduti tempiesi della Prima Guerra Mondiale, ben tre alberi erano stati piantati per qualcuno della mia famiglia, ma nessuno me ne aveva mai parlato. Siccome mi sono incuriosito, ho preso delle note e ho contato gli alberi nelle file finché non ho trovato quelli corrispondenti ai Dibeltulu. Nello stesso momento lì a due passi ho visto due busti di bronzo che ritraggono due combattenti tempiesi che parteciparono alla Grande Guerra nella Brigata Sassari. Con grande sorpresa, dopo essermi avvicinato, ho scoperto che uno dei busti è proprio del comandante Graziani. Sapevo chi era Graziani e quale fosse stato il suo ruolo, sia nei libri di Lussu che durante i primi anni del Partito Sardo d’Azione e durante il periodo fascista, ma non avrei mai immaginato che ci fossero persone, a Tempio, che lo stavano commemorando ancora oggi.
Ma la mia sorpresa non è finita lì e il secondo shock dopo aver trovato Graziani commemorato a quasi cento anni dalla sua partecipazione alla Grande Guerra, è arrivato quando ho abbassato lo sguardo per leggere la targa sotto il busto, dove a cavallo del gonfalone dei Quattro Mori sostenuto da due leoni, si trova il famoso motto: SA VIDA PRO SA PATRIA

Ho usato la parola shock non a caso, perché l’ambiguità di questa frase contiene la chiave di lettura del nostro trauma. Ovviamente, a meno che qualcuno non nutra ancora dei dubbi, quella parola “patria” indica la nazione Italiana. Comunque penso che oggi, a Tempio, chiunque legga questo motto accanto alla bandiera dei Quattro Mori, abbia certamente almeno un minimo di esitazione, un momento di sospensione, nel codificare il valore di quel simbolo accompagnato da quelle parole così emblematiche.
Allora, vediamo un po’ qual è questo trauma. Se ci pensiamo un attimo, troveremo subito la risposta nelle parole che precedono la parola “patria”, nella frase “Sa vida pro sa patria”. Questo valore, un valore pensato, creato, travagliato, ma certamente non dato, è il valore del “Sacrificio”. E qui con la parola sacrificio intendo richiamare il “sangue” sparso nell’orrore e nell’insensatezza della guerra, una guerra che ha accomunato migliaia e migliaia di giovani di tutta la Sardegna in una esperienza che nemmeno loro potevano capire fino in fondo, e che, con loro, ha gettato nel panico, nel dolore, e nel lutto tutte, proprio tutte, le famiglie della Sardegna di inizio Novecento.
Quello che ha accomunato tutte le donne e gli uomini sardi senza eccezione in questo macello è il sangue versato, il sangue versato in un sacrificio che ha determinato l’incisione, sui nostri corpi stessi, delle tracce del sacrificio di sé e della propria nazione. Una nazione che è stata integrata in un’entità altra, in cui è rinata prigioniera di questo inganno mnemonico. Che sia chiaro però, questa incisione non è avvenuta direttamente, ma tramite le narrative storiche che sono emerse in Sardegna e sulla Sardegna tra le due guerre mondiali che si sono, come dire, cristallizzate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e fino ai nostri giorni. Queste sono le storie, le narrazioni che ci insegnano a scuola e che troviamo per la maggior parte sugli scaffali delle librerie. O meglio, per essere più precisi, è l’assenza delle storie che ci riguardano, delle nostre storie, quelle che danno senso alla nostra esistenza come popolo su quest’isola.
Alcune famiglie dei soldati della Brigata Sassari hanno visto i propri figli tornare, ma molte, come la mia, hanno perso più di un figlio nella Prima Guerra Mondiale. [Fonte: Sedda 2010] Secondo dati recenti solo i morti della Brigata Sassari furono 1.754, alla cui cifra vanno aggiunti 2.088 dispersi e 9.000 feriti. Ma la Brigata Sassari rappresenta solo una parte dei sardi in guerra. Il totale dei sardi morti nella Grande Guerra o per cause di guerra furono 13.602. Che è più o meno il numero degli abitanti della nostra città. Come se tutti gli abitanti di una città come Tempio scomparissero nel giro di poco tempo.
Ma direi che ora, il ponte che abbiamo iniziato a costruire all’inizio, è quasi finito. Abbiamo tutti gli elementi: la nazione rimossa, e una delle cause fondanti di questa rimozione, ovvero il “sacrificio” dei sardi nella prima Guerra Mondiale. Tuttavia, prima di passare la parola a Franciscu per entrare nei particolari di questa analisi vorrei invitare il pubblico a fare due cose.
La prima, è un invito a riflettere sulle domande: “Che cosa significa, oggi, quel sacrificio, per noi sardi in genere, e per noi tempiesi in particolare?” E ancora: “Chi è stato sacrificato? Per chi?” “Questo sacrificio è forse servito a qualcosa?” “Come si riflette questo sacrificio sulla nostra vita odierna e sulle politiche culturali, sociali, ed economiche del nostro territorio?”
Come seconda cosa, se vi dovesse capitare, vi inviterei a fare un giro al Parco delle Rimembranze, per leggere ancora una volta la parola “patria” nel motto riportato sotto al busto di Graziani.
Adesso il ponte è completo. A parte i nostri caduti, quello che possiamo decidere di “rimembrare” riflettendo sul nostro parco potrebbe forse essere quella nazione in divenire, quella nazione potenziale, il cui futuro è stato interrotto e la cui memoria è stata rimossa da un secolo a questa parte. Il futuro è aperto, la decisione sta a noi. Come ha detto Obama di recente, “Siamo noi stessi quelli che stavamo aspettando. Siamo noi stessi il cambiamento che stiamo cercando.” — Sta quindi a noi decidere se trasformare il ricordo, la rimembranza, in una pratica di guarigione e di amore per la nostra terra, verso noi stessi e verso i sardi che vivranno dopo di noi.
Ora che il ponte è completo, per guidarci nell’attraversarlo lascio la parola a Franciscu.







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