Informazioni personali

Si pappada? In sardo significa due cose a) Si mangia? b) Vi prude? E così che con un pizzico di ironia voglio raccontare di cucina e suggerire ricette e dispensare qualche buon consiglio popolare. Quindi sia se avete fame, se siete curiosi o se vi prude della vaghezza questo è comunque il blog che fa per voi!

lunedì 15 novembre 2010

Omar Onnis, recensione de "I sardi sono capaci di amare"









Di Omar Onnis.

Non sono tanti i manifesti politici nella storia della Sardegna contemporanea. Forse perché non è stata cospicua la meditazione e la condivisione teorica su temi che riguardano la nostra collettività storica in termini pragmatici, propositivi. Molta teoria, poca prassi insomma. Anzi, una fobia abbastanza evidente  e generalizzata per i possibili risvolti politici delle proprie elaborazioni (come nel caso di un grande classico quale La rivolta dell’oggetto, di Mialinu Pira).

In questo caso, l’ultima fatica di Franciscu Sedda è dichiaratamente un manifesto politico, senza troppi complessi. Al contempo, tuttavia, è anche un esempio di saggistica. L’evocatività della scrittura non penalizza la sua efficacia e la sua pregnanza, fondandosi – direi inevitabilmente – sulla grande preparazione teorica dell’autore. Un manifesto con molte argomentazioni e molti riferimenti, dunque. Tale per cui, di fatto, lo si può contestare solo destituendo di fondatezza quelle stesse argomentazioni, o presentandone di alternative della stessa forza e portata.
Ma di cosa tratta questa pubblicazione così inusuale? Già qualche critico ha usato la metafora della seduta psicoterapeuta. È abbastanza calzante, anche perché nel testo stesso si fa appello a concetti e costrutti tipicamente psicanalitici. Una terapia collettiva, che però investe ciascuno di noi nella sua propria identificazione personale.
Il nucleo centrale dell’opera si può condensare in un tentativo di smontare il mito tecnicizzato dell’identità sarda contemporanea, di de-costruirlo e di mostrarne le origini, la composizione, il dispositivo interno. Un lavoro di analisi pignolo e profondo, svolto con la premura ma anche quel tanto di sadismo (e in questo caso anche masochismo) indispensabile in qualsiasi pratica di cura.
Vediamo dunque da dove nasce la percezione così diffusa che i sardi hanno di se stessi, apprendiamo di un trauma rimosso, che è necessario riportare alla coscienza, sia pure a costo di un nuovo dolore. Osserviamo noi stessi nel nostro esistere storico, così condizionato da un’ideologia autocastrante (falsa coscienza che diventa autocoscienza) da bloccarci nel dispiegamento concreto del nostro stesso essere al mondo. Scopriamo cosa ci sia dietro questo sbandare continuamente tra un non-essere e un essere-qualcos’altro-ma-solo-un-po’, senza mai essere qualcosa al 100%.
Storia, letteratura, politica, psicanalisi, semiotica, antropologia si intrecciano in un discorso fluido, narrativo, quasi sciamanico: un’evocazione degli spiriti che ci perseguitano. Ma per esorcizzarli. Tutto ricondotto poi alla concretezza del nostro vivere quotidiano, alla nostra corporeità. La carne e il sangue sono molto presenti in questo testo, che non ci abbandona all’attrazione dell’iperuranio teorico, ma ci tiene ben ancorati alla nostra condizione animale, materiale, fisica.
Oltre alla pars destruens, non manca il tentativo di offrire una pars construens. Tentativo difficile, irto di tranelli. De-costruire e smontare un mito tecnicizzato espone a un vuoto di narrazione che in qualche modo è necessario riempire. Non è detto che a riempirlo sia qualcosa di meglio. Il tentativo qui, invece, è di sostituire una narrazione penalizzante, foriera di subalternità, con una maggiore consapevolezza storica di sé come parte di una collettività vera, viva, esistente. Non la sostituzione meccanica di sovrastrutture, ma l’appello a una creatività condivisa, a una forma di amore non privata ma pubblica, per sé e per gli altri. La ricetta proposta rinnega la ricerca di giustificazioni per una tutela o una protezione altrui, basata su una pretesa specialità, ma aspira a un’assunzione di responsabilità storica collettiva.
L’operazione è difficilissima. Il testo ha avuto una lunga gestazione e racchiude meditazioni e riflessioni che abbracciano molti anni della vita dell’autore, coinvolgendo inevitabilmente anche la sfera dell’azione politica diretta, in cui Franciscu Sedda si cimenta come dirigente di partito e come intellettuale organico.
Un libro inclassificabile, parziale e per questo onestissimo. Prima di tutto auto-critico, senza infingimenti ma con al fondo una grande dose di indulgenza e di propositività. Senza illusioni, ma anche senza l’autocompiacimento della sconfitta storica inevitabile in cui troppa parte dell’intellettualità sarda ha costruito il suo comodo nido e il senso della propria opera pubblica.
L’emancipazione storica della Sardegna, in una prospettiva indipendentista, diventa oltre che farmaco salvifico anche concreta proposta politica, dunque. Possibilità di salvezza per le nostre anime e per i nostri corpi, ma solo a patto di essere moralmente e politicamente all’altezza di questo compito.
Un libro ben scritto, infine. Il che, a prescindere dal resto, non è una qualità da poco.




http://sardegnamondo.blog.tiscali.it/





venerdì 17 settembre 2010

Bachisio Bandinu. Possa tu essere ciò che non sei

Intervento di Bachisio Bandinu alla presentazione de I sardi sono capaci di amare di Franciscu Sedda, Tempio, 21 Agosto 2010


Possa tu essere ciò che non sei




La parola identità è rischiosa esattamente perché ha un peccato d’origine, che viene dalla matematica. E però è sempre appoggiata ad un’altra parola: differenza. Identità e differenza. Forse che l’indipendentismo non è una coscienza d’identità? Ma di identità aperta, che ammette la differenza? – Prima esisti tu, poi io – questo già pone la relazione.

Come posso dire “io” se non ho un “tu” davanti? Non posso. Non posso nel senso vero, materiale del termine, non solo grammaticale. Quindi, posto che il “tu” esiste prima dell’“io”, ogni concetto negativo di identità per come lo interpretiamo noi cade. Perché io esisto, “io”, in quanto tu esisti, tu mi stai di fronte.

E’ la frontalità che pone la relazione. Obbligati. Quindi l’identità non è essenzialistica, non è contenutistica, non si eredita – “Abbiamo ereditato l’identità” – Per niente! – “Tornare a su connotu” – Non si torna a su connotu! Non si torna.


Possa tu essere ciò che non sei,
non ciò che sei.
Ciò che sei è già acquisito,
e forse nel segno della povertà, interiore.
Possa tu essere ciò che non sei.



Su connotu? No! Su disconnotu! Ciò che noi sardi non abbiamo avuto modo di conoscere perchè non ci è stato dato di conoscere. E vogliamo conoscerlo, quell’ignoto, quello sconosciuto.

Allora, niente tornare a su connotu, ma sperimentare “su disconnotu”, ciò che ci è stato negato. Ciò che è stato represso. Il rimosso che torna nel tempo e diversamente si presenta e provoca il presente, per una nostra reazione.

Allora, questa è la logica dell’indipendenza. L’identità ci è stata data, ci è stata data l’immagine che noi sardi abbiamo di noi stessi. Non ci appartiene! Non è un’identità conquistata da noi. E’ un’immagine negativa che ci è stata data dal potere, dai dominatori, e noi l’abbiamo fatta nostra.

Abbiamo tentato di non farla nostra nella logica del risentimento, ma non è con il risentimento che si risolvono i problemi. Perché il risentimento pone sempre la relazione obbligata tra il servo e il padrone. Il risentimento rinforza la dipendenza.

Allora ritorno all’origine del libro I sardi sono capaci di amare. Non c’è l’interrogativo. I sardi sono capaci di amare. E se io ve lo ponessi come interrogativo, voi cosa rispondereste? I sardi sono capaci di amare? No!!! No, perché l’amore non ci è stato dato, perché ci è stata data la sudditanza. Perché siamo vissuti nell’illusione del potere subìto, sofferto, patito, che ci ha impregnato di risentimento. Il sistema vendicativo! Non si può costruire una nazione sul sistema vendicativo. Niente risentimento!

Allora ecco l’affermazione, non l’interrogativa: I sardi sono capaci di amare. E’ questo il modo, è questo l’avviarsi, è questo il procedere, questo è l’incamminarsi verso l’indipendenza. Cioè, questo è il modo di procedere pragmatico, nella realtà operativa.

I sentimenti e le ragioni. Per arrivare verso qualcosa, non lo si sa. Cos’è questa pretesa di dire: “Ma l’indipendenza dove conduce?” Ma tu vuoi sapere già la meta già prima del cammino? Tu vuoi il risultato, la cambiale già pronta, prima dell’operazione, prima del fare, prima dell’apertura? Non puoi. Quella è una logica conservativa.

“Voglio sapere che cosa avverrà”. Chi dice che vuole sapere ciò avverrà in prospettiva, nega l’apertura della strada, del cammino, del procedere. E’ nel procedere che si costruisce. E’ nel procedere che si sperimenta. E’ nel procedere poi che nascono strade nuove, che io non posso contemplare a priori, prima di quando voglio sapere.

Allora, “I sardi sono capaci di amare” è la sfida. E’ la logica del procedere, del piede e del passo nell’andare avanti. E nell’andare avanti le cose si fanno, le cose avvengono, e procedendo ancora avvengono, e non c’è, dopo, meta che una volta raggiunta si possa dire: “Ah! Adesso possiamo riposarci!” Quella è la logica delle tappe conquistate, tipica dei conquistatori. 

Non ce n’è di tappe, non c’è meta dove possiamo riposarci. La logica del cammino indica l’itinerario. Nell’itinerario, qualcosa avviene. Nell’itinerario, si vive l’esperienza dell’indipendenza, e a mano a mano che si fanno conquiste si consolida, e si trasforma sempre più in un vivere sociale, nella relazione continua, in una procedura che non è psicologica soltanto, ma che è economica, è ambientale, è turistica.

E però appartiene a nuove conquiste identitarie, ma identitarie sempre nel senso delle nostre conquiste. Perché – proprio perché non si eredita – essendo una conquista continua, non è altro che un’attualità. Cioè, è un processo di esperienza di identità e disidentità. Non c’è l’uno. Le cose procedono dal due. In noi c’è dualità, non unità. C’è identità e disidentità.

L’amore è nella logica del duale. Se è nella logica dell’uno, non è amore. E’ egoismo, è possesso, è dominanza. L’amore è duale. L’indipenzenza è su questo procedere. Che l’amare è nella dualità. 

(Trascrizione M. Dibeltulu)

mercoledì 15 settembre 2010

Recensione di Celestino Tabasso




Gli italiani immaginari sul lettino di Sedda
da L'Unione Sarda, sabato 15 maggio 2010


La rivoluzione è fissata per questa mattina alle 11 al T Hotel di Cagliari, in via dei Giudicati. Lì Franciscu Sedda, docente di semiotica e ideologo dell'indipendentismo targato Irs, presenterà con Bachisio Bandinu, Mario Carboni, Maria Antonietta Mongiu e Gianni Marilotti il suo “I sardi sono capaci di amare - Coscienza e futuro di una nazione”. Il libro è pubblicato dalla cooperativa Kita, che ha in catalogo anche il “Verbale di Natale” di Gilberto Ganassi: un editore che schiera un intellettuale separatista e un pubblico ministero può apparire una bizzarrìa, ma è vero che lo stesso saggio di Sedda è sorprendente, anomalo, intellettualmente spregiudicato.
La rivoluzione annunciata per le 11 percorre tutte le 218 pagine chiare ed eleganti del testo e ruota intorno ad alcuni concetti chiave. Il primo: la Sardegna nazione fallita, azzoppata da troppe sconfitte, abitata da un popolo senza storia, è una menzogna. Così come sono infondati lo stereotipo dei sardi disuniti e quello dei sardi “resistenti”, “vinti ma non convinti” e via digrignando i denti.

TERAPIA Dopo aver fatto accomodare i sardi sul lettino dell'analista, Sedda chiude le tapparelle e proietta un film che parafrasando Griffith chiameremmo “Mancata nascita di una nazione”. Non sono state le sconfitte militari a farci mancare le gambe - spiega dopo aver studiato l'anamnesi storica del paziente, documento dopo documento, testo dopo testo - né è stata qualche tabe ereditaria che ci ha fiaccato l'anima o depotenziato l'intelletto.

IL MESSIA No, a tarparci la capacità nazionale è stato un trauma. Che come ogni trauma che si rispetti è stato rimosso e sepolto nell'inconscio: da lì continua a inquinare le falde della nostra autocoscienza, ci costringe ad atteggiamenti nevrotici di simulazione, di compensazione, insomma a tutti i rituali più o meno inconsapevoli che uno shock profondo porta con sé. È quel che avvenne agli ebrei dell'impero ottomano attorno al 1650 - racconta Sedda - quando sulla scena apparve Shabbetaj Zevi, che da tutti fu accettato come il Messia. Grande entusiasmo collettivo, e grande trepidazione quando Zevi viene imprigionato: il Dio in Terra era destinato a mutarsi rapidamente in martire? No: presentato al Sultano e sottoposto a uno stringente contraddittorio religioso, il “Messia” si convertì all'Islam. Per la comunità ebraica fu un colpo da ko. Un ceffone che un popolo - sia pure capace di considerarsi “eletto” ad onta di diaspore e persecuzioni - poteva assorbire solo a costo di grande dolore e turbamento. Figurarsi che effetto fece ai sardi - molto meno sicuri di godere della predilezione divina - sentirsi dire che il sogno nazionalitario era un informe castello in aria, che l'Italia li aveva snobbati e sfruttati e per questo bisognava guadagnarsene il rispetto mostrandosi pronti al sacrificio di sé in trincea e non solo. E se lo sentirono dire, scrive Sedda, proprio dai profeti del sardismo. Non solo da Bellieni, con la sua crudele diagnosi della nazione abortiva, ma anche da Lussu. Finite la dittatura e la guerra, il capitano senza macchia e senza paura che il sentimento popolare viveva, presagiva come leader della repubblica sarda, ci pensò su per un anno e poi annunciò che quella repubblica non s'aveva da fare.

I RASSEGNATI Questo “contrordine compatrioti”, avverte Sedda, è il più destabilizzante degli episodi nazionicìdi, ma non l'ultimo. Lo stesso ormone della decrescita ci viene iniettato dagli storici che spostano di era in era il momento aureo della Sardegna - ora la civiltà nuragica, ora il regno d'Arborea, ora il combattentismo - a patto che di ciascuna si dica che era l'ultima occasione, e ormai è perduta. L'occasione è sempre, dice Sedda. E questo è l'elemento effettivamente rivoluzionario. L'occasione c'è a patto di consentirsela, di ammettere che si è degni di libertà.
E se non si vuole uccidere i Padri - conclude mentre il paziente si rialza dal lettino, dopo aver ascoltato una lunga e dotta analisi che spazia da Bodei a Gandhi, dai Simpson a Cioran - almeno non facciamoci zittire dai loro fantasmi.
CELESTINO TABASSO

martedì 14 settembre 2010

Recensione di Maltinu Dibeltulu



Giovanni Nonnis, Guerrieri


Presentazione de "I sardi sono capaci di amare" Tempio 20 agosto 2010

Innanzitutto vorrei ringraziare tutti per essere qui presenti stasera. Oltre al piacere di presentarvi Franciscu Sedda, docente di Semiotica all’Università di Roma “Tor Vergata” e uno tra gli autori sardi contemporanei di maggiore spessore e originalità, vorrei proporvi brevemente alcune idee, alcune connessioni a cui ho pensato tra l’argomento del suo libro e la nostra città. Infatti con la mia introduzione vorrei costruire un ponte tra voi, cittadini tempiesi del 2010, e Franciscu.
Per questo motivo ringrazio anche Ornella Demuru con Kita Edizioni, e Riccardo Mura, per essere qui con noi. Rivolgo inoltre un ringraziamento speciale all’assessorato alla Cultura, Spettacolo, e Sport del Comune di Tempio che ha messo a disposizione i locali dell’ExMè per questo incontro.
Poco fa ho parlato di un ponte, appunto, un ponte che colleghi la nostra realtà cittadina, che siamo abituati a riconoscere come la culla della civiltà Gallurese, a un fenomeno culturale che negli ultimi anni si sta diffondendo in tutta la Sardegna. Mi riferisco a una reinvenzione, a una traduzione, e a una rilettura delle nostre tradizioni e delle nostre storie locali nei termini di un’ottica globale. Ma che cos’è un’ottica globale? In due parole, possiamo pensarla come una visione che prende i nostri processi di identificazione culturale, storica e politica e li mette in relazione con le dinamiche che sono emerse nell’era del capitalismo globale, in cui abbiamo iniziato a vivere da ormai diversi decenni. Un’era in cui qualunque prodotto o immagine, qualunque persona o idea, è in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta in un solo giorno o in poche ore, se non addirittura in un solo secondo tramite internet.
Per mettere la prima pietra, per costruire le prime fondamenta di questo ponte, vorrei quindi leggervi un passo dal libro di Franciscu. Un passo che mi ha particolarmente colpito perchè introduce il filo conduttore del libro, che possiamo capire meglio analizzandolo brevemente da un punto di vista psicanalitico. Il filo conduttore del libro, appunto, comprende il tema di un trauma, di un lutto, di un dolore tale che non ci lascia altra scelta se non di dimenticarlo, di rimuoverlo. Allo stesso tempo, una volta che abbiamo rimosso il trauma, cerchiamo delle soluzioni ai nostri problemi, e a volte pensiamo di averle trovate. E però queste soluzioni temporanee eliminano solo il sintomo. In realtà il problema alla radice non viene eliminato, e quando gli stessi o nuovi problemi emergono, vengono ancora una volta condizionati e imprigionati dall’energia, dalla catarsi del trauma iniziale.
E nonostante questo trauma sia rimosso e finisca in qualche anfratto nascosto del nostro inconscio, e che quindi fatichi, ovviamente, a tornare a galla alla coscienza, ogni volta che il meccanismo di censura della coscienza stessa abbassa le difese, ecco che il rimosso risale a galla. Per esempio, possiamo pensare al meccanismo di censura politica su internet. A seguito di qualche evento traumatico, come uno scandalo, le manifestazioni per un G8, o le contestazioni di alcune categorie di lavoratori, un governo decide di mettere in atto delle misure di controllo, come la censura di un particolare contenuto. Ma con una migliore tecnologia, un software speciale, o semplicemente con l’allentamento della censura da parte del governo, gli utenti di internet possono tornare ad usufruire dell’oggetto rimosso.
Ma nel nostro caso il problema è che tornando a galla, l’oggetto rimosso dalla memoria è trasfigurato. E non solo è irriconoscibile alla nostra coscienza. La coscienza stessa lo riconosce come se fosse la realtà delle cose. E quindi, il problema che normalmente incontriamo è che ci illudiamo che quello che ricordiamo sia veramente la nostra esperienza passata, e che questo ricordo che riemerge sia la registrazione fedele della nostra memoria. E sebbene continuiamo a rimuovere il trauma iniziale con precisione e costanza, con quella stessa azione del ricordare non facciamo altro che mettere in pratica ciò che in psicanalisi viene detto “coazione a ripetere”. Questo vuol dire che più cerchiamo di dimenticare, più l’energia prodotta da questa azione ci induce a ripetere la stessa esperienza traumatica, a commettere gli stessi errori nel nome di una memoria che è parziale e corrotta, sebbene essa si manifesti illusoriamente come registrazione fedele del nostro passato.
Ma lasciando per un momento la psicanalisi e tornando a noi, in parole spicciole, cos’è stato questo trauma nella coscienza dei sardi? E prima ancora, cos’è che è stato rimosso, che siamo ancora costretti a rimuovere, dalla nostra coscienza? In che modo, nel nostro tentativo di affermare la nostra identità, ripetiamo l’errore iniziale? Quale meccanismo s’innesca per cui la memoria ci tradisce, tirandoci questi brutti scherzi?
Ecco quindi il passo tratto dal paragrafo di Franciscu sulla “megalomania”:

È evidente che c’è del marcio in Sardegna; che nullità e abnormità sono il segno che c’è qualcosa che non va; che questa esaltazione è una compensazione per un trauma rimosso che non riusciamo a far emergere pienamente alla coscienza, un palliativo contro una ferita profonda che non riusciamo a curare se non accallonandoci con qualche potente anestetico. Invece di fare i conti con il dolore e il lutto, e finalmente liberarcene, lo abbiamo fatto diventare normale e quotidiano non-senso. […] C’è qualcosa d’altro, c’è qualcosa là in mezzo, o meglio, altrove, che ci appartiene. Che noi dobbiamo fare nostro. C’è qualcosa oltre la scissione continente-regione…c’è una nazione

Il rimosso di cui vi parlavo poco fa è proprio la nazione. Ma quale nazione? Come scopriremo tra poco, si tratta della nazione sarda. Visto che questa nazione l’abbiamo dimenticata, o meglio, nella nostra memoria emerge trasfigurata, trasformata in qualcosa d’altro, adesso la domanda che potremmo porci è un’altra. Quanti di noi qui presenti, per esempio, ricordano la nazione sarda, o anche solo di aver letto o sentito la parola “sarda” assieme alla parola “nazione”? La nazione sarda, una nazione in cui in passato ci siamo riconosciuti come popolo, che abbiamo amato, che abbiamo criticato, che abbiamo governato, e per la quale abbiamo combattuto uniti in diversi momenti cruciali della nostra storia? Quanti di noi la ricordano? Se pensiamo ai meccanismi di censura di cui abbiamo parlato poco fa, forse il fatto che non la ricordiamo significa che non sia mai esistita? Siamo veramente sicuri che non sia invece la nostra memoria storica recente, e il modo in cui ci siamo raccontati negli ultimi cento anni, che ci sta tirando qualche brutto scherzo? E se invece la nazione non la ricordassimo proprio perché è stata minuziosamente rimossa dalla nostra memoria storica? Potrebbe essere. Ma se non possiamo affermare che abbiamo rimosso la nazione sarda direttamente per via di un trauma, di un lutto, di un dolore che non riusciamo più ad affrontare, possiamo invece dire con sicurezza che questo trauma ha messo le condizioni primarie affinché il nostro inganno mnemonico si manifestasse.
Ora arriviamo subito a scoprire qual è stato questo trauma. E come seconda pietra, e magari anche con un po’ di cemento armato per i pilastri del nostro ponte, vorrei raccontarvi un breve aneddoto di qualcosa di curioso, o che almeno a me è parso tale, e che mi è capitato ai primi del mese di Giugno scorso non appena sono rientrato in Sardegna dagli Stati Uniti.
Premetto che negli ultimi due anni, per motivi di ricerca, ho consultato moltissimi testi sulla Sardegna Ottocentesca, di autori sardi e no, e mi sono imbattuto, oltre che in molti libri di Emilio Lussu e di Camillo Bellieni, che come sappiamo sono i leader storici del Partito Sardo d’Azione, ho anche trovato un libro di uno dei loro amici più intimi dai tempi della Grande Guerra. Questo libro è Fanterie sarde all’ombra del tricolore e fu scritto nel 1934 dal tempiese Alfredo Graziani (1892-1950). Graziani fu comandante della XII compagnia della Brigata Sassari e poi esponente cittadino del partito fascista nei primi anni ’20. Forse alcuni di voi ricordano Graziani per il suo soprannome, “Tenente Scopa,” oppure hanno letto il libro di Lussu Un anno sull’altipiano, in cui Lussu racconta le imprese di Graziani tra le trincee chiamando con il “nickname” “Tenente Grisoni.” … [strana assonanza con Graziani]
Insomma, tornando a noi, mentre passavo al Parco delle Rimembranze per andare alla biblioteca comunale, mi sono fermato a vedere il monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale, quello all’angolo con Via Limbara davanti al Tribunale della Provincia Olbia-Tempio, che non avevo mai visto bene. Sapevo che nel Parco, chiamato delle Rimembranze proprio per ricordare i caduti tempiesi della Prima Guerra Mondiale, ben tre alberi erano stati piantati per qualcuno della mia famiglia, ma nessuno me ne aveva mai parlato. Siccome mi sono incuriosito, ho preso delle note e ho contato gli alberi nelle file finché non ho trovato quelli corrispondenti ai Dibeltulu. Nello stesso momento lì a due passi ho visto due busti di bronzo che ritraggono due combattenti tempiesi che parteciparono alla Grande Guerra nella Brigata Sassari. Con grande sorpresa, dopo essermi avvicinato, ho scoperto che uno dei busti è proprio del comandante Graziani. Sapevo chi era Graziani e quale fosse stato il suo ruolo, sia nei libri di Lussu che durante i primi anni del Partito Sardo d’Azione e durante il periodo fascista, ma non avrei mai immaginato che ci fossero persone, a Tempio, che lo stavano commemorando ancora oggi.
Ma la mia sorpresa non è finita lì e il secondo shock dopo aver trovato Graziani commemorato a quasi cento anni dalla sua partecipazione alla Grande Guerra, è arrivato quando ho abbassato lo sguardo per leggere la targa sotto il busto, dove a cavallo del gonfalone dei Quattro Mori sostenuto da due leoni, si trova il famoso motto: SA VIDA PRO SA PATRIA

Ho usato la parola shock non a caso, perché l’ambiguità di questa frase contiene la chiave di lettura del nostro trauma. Ovviamente, a meno che qualcuno non nutra ancora dei dubbi, quella parola “patria” indica la nazione Italiana. Comunque penso che oggi, a Tempio, chiunque legga questo motto accanto alla bandiera dei Quattro Mori, abbia certamente almeno un minimo di esitazione, un momento di sospensione, nel codificare il valore di quel simbolo accompagnato da quelle parole così emblematiche.
Allora, vediamo un po’ qual è questo trauma. Se ci pensiamo un attimo, troveremo subito la risposta nelle parole che precedono la parola “patria”, nella frase “Sa vida pro sa patria”. Questo valore, un valore pensato, creato, travagliato, ma certamente non dato, è il valore del “Sacrificio”. E qui con la parola sacrificio intendo richiamare il “sangue” sparso nell’orrore e nell’insensatezza della guerra, una guerra che ha accomunato migliaia e migliaia di giovani di tutta la Sardegna in una esperienza che nemmeno loro potevano capire fino in fondo, e che, con loro, ha gettato nel panico, nel dolore, e nel lutto tutte, proprio tutte, le famiglie della Sardegna di inizio Novecento.
Quello che ha accomunato tutte le donne e gli uomini sardi senza eccezione in questo macello è il sangue versato, il sangue versato in un sacrificio che ha determinato l’incisione, sui nostri corpi stessi, delle tracce del sacrificio di sé e della propria nazione. Una nazione che è stata integrata in un’entità altra, in cui è rinata prigioniera di questo inganno mnemonico. Che sia chiaro però, questa incisione non è avvenuta direttamente, ma tramite le narrative storiche che sono emerse in Sardegna e sulla Sardegna tra le due guerre mondiali che si sono, come dire, cristallizzate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e fino ai nostri giorni. Queste sono le storie, le narrazioni che ci insegnano a scuola e che troviamo per la maggior parte sugli scaffali delle librerie. O meglio, per essere più precisi, è l’assenza delle storie che ci riguardano, delle nostre storie, quelle che danno senso alla nostra esistenza come popolo su quest’isola.
Alcune famiglie dei soldati della Brigata Sassari hanno visto i propri figli tornare, ma molte, come la mia, hanno perso più di un figlio nella Prima Guerra Mondiale. [Fonte: Sedda 2010] Secondo dati recenti solo i morti della Brigata Sassari furono 1.754, alla cui cifra vanno aggiunti 2.088 dispersi e 9.000 feriti. Ma la Brigata Sassari rappresenta solo una parte dei sardi in guerra. Il totale dei sardi morti nella Grande Guerra o per cause di guerra furono 13.602. Che è più o meno il numero degli abitanti della nostra città. Come se tutti gli abitanti di una città come Tempio scomparissero nel giro di poco tempo.
Ma direi che ora, il ponte che abbiamo iniziato a costruire all’inizio, è quasi finito. Abbiamo tutti gli elementi: la nazione rimossa, e una delle cause fondanti di questa rimozione, ovvero il “sacrificio” dei sardi nella prima Guerra Mondiale. Tuttavia, prima di passare la parola a Franciscu per entrare nei particolari di questa analisi vorrei invitare il pubblico a fare due cose.
La prima, è un invito a riflettere sulle domande: “Che cosa significa, oggi, quel sacrificio, per noi sardi in genere, e per noi tempiesi in particolare?” E ancora: “Chi è stato sacrificato? Per chi?” “Questo sacrificio è forse servito a qualcosa?” “Come si riflette questo sacrificio sulla nostra vita odierna e sulle politiche culturali, sociali, ed economiche del nostro territorio?”
Come seconda cosa, se vi dovesse capitare, vi inviterei a fare un giro al Parco delle Rimembranze, per leggere ancora una volta la parola “patria” nel motto riportato sotto al busto di Graziani.
Adesso il ponte è completo. A parte i nostri caduti, quello che possiamo decidere di “rimembrare” riflettendo sul nostro parco potrebbe forse essere quella nazione in divenire, quella nazione potenziale, il cui futuro è stato interrotto e la cui memoria è stata rimossa da un secolo a questa parte. Il futuro è aperto, la decisione sta a noi. Come ha detto Obama di recente, “Siamo noi stessi quelli che stavamo aspettando. Siamo noi stessi il cambiamento che stiamo cercando.” — Sta quindi a noi decidere se trasformare il ricordo, la rimembranza, in una pratica di guarigione e di amore per la nostra terra, verso noi stessi e verso i sardi che vivranno dopo di noi.
Ora che il ponte è completo, per guidarci nell’attraversarlo lascio la parola a Franciscu.







Per farla finita col concetto di identità





Di Riccardo Mura

Per farla finita col concetto di identità



«Dire di due cose che sono identiche è
un’assurdità e dire di una cosa che è identica
a sé stessa significa non dire nulla.» ludwig wittgenstein

«Ci sono mille possibili io in me,
ma non posso rassegnarmi a
esserne solamente uno.» andré gide

«Un uomo onesto è un uomo mescolato.»
«Posso comprendere gli altri solo perché
io sono altro da me.»
michel montaigne

«Vivere è essere un altro. Sentire non è possibile se si sente
oggi come si sentiva ieri: sentire oggi la stessa cosa
di ieri significa non sentire. […] Questa aurora è la prima del mondo […]
per la prima volta esiste questa ora, questa luce, questo essere che è il mio.
Ciò che sarà domani sarà altro e ciò che io vedrò sarà visto da occhi ricomposti e
colmati da una nuova visione. bernardo soares (fernando pessoa)


Il primo libro che ho letto di Franciscu Sedda è La vera storia della bandiera dei sardi, un viaggio incredibile nella romanzesca storia della bandiera dei Quattro Mori, un viaggio che attraverso i suoi inevitabili «scali» dà la possibilità di fare delle incursioni mozzafiato nella storia generale del nostro popolo. Al ritorno da questa esperienza esaltante, mi sono impelagato nella lettura dei primi due libri di Franciscu –Tracce di memoria e Tradurre la tradizione–, anche quelli libri interessantissimi, ma che mi hanno procurato non pochi mal di testa, visto il loro taglio meno divulgativo, piú da semiologo.
I sardi sono capaci di amare, invece, mi ha provocato ben altri disagi. La prima parte –intitolata Nazione e narrazione– seppur breve, mi ha rivoltato… non nel senso di disgustarmi, ma in quello d’indurmi alla ribellione, innanzitutto estetica.
La seconda parte m’ha fatto venire delle manie di persecuzione. Franciscu mi appariva con gli occhi iniettati di sangue, con una lanterna in una mano e la forca nell’altra, alla caccia d’ogni anfratto oscuro della «coscienza infelice» di noi sardi, passando al setaccio tutte le nostre ipocrisie e i nostri paradossi. Ammetto che m’ero illuso d’essere del tutto purificato da certe infelicità… e invece mi ha costretto ad alcuni autodafè.
Anche la terza –Addio ai fantasmi–, strutturata come un vero e proprio inferno dantesco, mi ha rivoltato… stavolta proprio nel senso di muovermi al disgusto, all’amarezza, talvolta alla rabbia. E non tanto per il nostro passato remoto –dato che non credo abbia proprio senso provar rabbia per come sono andate le cose nella storia secolare–, ma per la nostra storia recente, per quella sí, credo che la rabbia sia un sentimento legittimo, non fosse per altro ch’è una storia che nessuno ci racconta, ed è fatta da personaggi vivi… o continuamente riesumati.
Fortuna che, nelle ultime due parti, questa rabbia, quest’amarezza si sono sciolte, o meglio Franciscu è riuscito ad alchimizzarle in un sentimento positivo e propositivo a cui non voglio dare un nome, adesso, ma che ho scoperto esistere nel nostro lessico e nei nostri cuori, almeno fino a seicent’anni fa, e forse chissà che oggi non si torni a scriverlo sul nostro vocabolario.
Che dire? I sardi sono capaci di amare è un libro entusiasmante. Fin troppo bello. «Mantènghia» dovrei dire, perché ho provato persino invidia per quant’è ben scritto. Tanto che, alla seconda lettura, mi sono affannato alla ricerca di qualche difetto. Con tanta ostinazione che, alla fine, il pelo nell’uovo l’ho trovato.
E questo pelo è la parola identità, il concetto di identità. Un concetto che –a esser sinceri­– non m’ha mai convinto. Tendo sempre a evitarlo, l’ho sempre trovato al tempo stesso impreciso e insidioso. Nonostante i due intellettuali sardi che piú stimo –Franciscu Sedda e Bachisio Bandinu– lo utilizzino piú volte nei loro scritti e nei loro discorsi. Certo, devo dare atto a questi due signori che lo usano con parsimonia e con diversi distinguo, coi puntini sulle i, diciamo. E forse, però, –a me sembra– con un certo imbarazzo. Franciscu, per esempio, nelle prime pagine di questo libro scrive che «non ci serve un’identità definitiva, ma un continuo processo d’identificazione positiva, anzi, propositiva», oppure, piú in là, dice che «la nostra identità è davanti a noi» –quindi, in qualche modo, da costruire. Però intanto quella parola indigesta c’è sempre: identità.
Per fortuna, anni fa, mi sono imbattuto in un libretto illuminante, edito dalla Eleuthera, intitolato Identità e métissage – Umani al di là delle appartenenze, dell’antropologo francese François Laplantine, e questo libretto m’ha incoraggiato a fare questa riflessione.
Per deformazione professionale, in quanto linguista, parto dal dizionario. Leggo dal De Mauro:

identità – 1. uguaglianza assoluta, corrispondenza perfetta – 2. l’insieme dei caratteri peculiari che contraddistinguono un individuo, un gruppo d’individui e sim. essere consapevole della propria i., perdere la propria i., l’identità culturale d’una nazione – 3. l’i. psicologica è il senso del proprio essere come soggetto continuo nel tempo e distinto da tutti gli altri.
Sinonimi: coincidenza, concordanza, conformità, corrispondenza, uniformità. Contrari: differenza, diversità.

La seconda accezione –«insieme dei caratteri peculiari che contraddistinguono un individuo o un gruppo d’individui»– è quella che c’interessa. Ma non trascurerei neanche le altre: le parole che usiamo sono importanti: hanno sempre un preciso significato originario, e, per quanto le si possa portare a spasso per designare mille altre cose, quel significato se lo portano sempre appresso, con tutte le implicazioni sulle nostre emozioni e sul procedere dei nostri pensieri. Ecco perché questa, a mio parere, non è una questione di lana caprina.
Laplantine fa notare innanzitutto come questa seconda accezione del termine «identità» si sia sviluppata molto recentemente e sia proliferata in maniera sorprendente, associandosi a sostantivi e aggettivi d’ogni tipo: «crisi d’identità», «ricerca dell’i.», «costruzione dell’i.», «perdita dell’i.», «disturbo dell’i.», «difesa dell’i.», «rivendicazione dell’i.»; «identità sessuale», «i. confessionale»… Tanto da apparire sempre piú confusa e impalpabile. Tanto che, forse, è una parola che ormai non chiarisce piú nulla, ma semmai dissimula. «Identità» è diventata una sorta di parola-jolly utile piú per designare che per comprendere. È sulla bocca di tutti; ma giusto lí, sulla bocca.
L’identità è un concetto tipico della filosofia platonica, ripreso dalla filosofia medievale (sopratutto scolastica), e comunque originariamente applicata alla metafisica, alla teologia. Solo recentemente è avvenuto questo transfert abusivo verso le scienze sociali. Nelle quali, però, si rivela inconsistente e inutile ai fini della ricerca.
Inoltre –sempre secondo Laplantine–, il pensiero identitario è pericoloso, perché trova terreno fertile negli estremismi, tipicamente nei nazionalismi, che sono figli del rifiuto o dell’inclusione forzata. Il guaio è che è una nozione di grande povertà epistemologica ma di grande efficacia ideologica. Vien da sospettare che questa parola venga usata «ogniqualvolta si voglia evitare di pensare l’alterità che è in noi, il flusso del molteplice, il carattere cangiante e contraddittorio del reale, l’infinità dei punti di vista»… E siccome le debolezze umane si ripresentano continuamente cambiando nome e connotati, chi mi dice che dietro il pensiero identitario non ci sia il solito vecchio pensiero razzista, reazionario e intollerante tipico delle società in crisi?
Ecco, la crisi. La crisi forse ci può aiutare a capire meglio questa impressionante metastasi della parola «identità». Perché in effetti questa parola compare proprio nelle società in crisi, nelle culture in decadenza. Forse perché l’identità semplifica, definisce, protegge, cristallizza, ordina il caos, s’oppone allo sfacelo… insomma, in una parola, rassicura!
L’identità ama la
copula… chi non la ama, penserà qualcuno… ma io intendo la copula grammaticale, la «è» con l’accento… l’identità identifica, dice «questo è questo e non altro», l’identità odia invece la «e» congiunzione, in quanto apre altre possibilità, apre all’alterità; mentre gli preferisce la «o» di disgiunzione: «o questo o quello: scegli!»; oltre al verbo «essere» ama il verbo «avere» e gli aggettivi possessivi: «io ho questo», «questo è mio».
L’identità guarda all’origine dell’individuo o del gruppo sociale, è un pensiero del passato, che distoglie dal guardare avanti, dal concentrarsi sulla crescita, sul cambiamento, sul divenire. È un paradossale avanzare a ritroso nel tempo, un rischioso camminare avanti guardando indietro.
Ma vorrei tentare di concretizzare questo pensiero… Concentriamoci sull’individuo. Se pensiamo all’uomo identitario, ci troveremo di fronte l’uomo «tutto d’un pezzo», senza ombra d’incertezza o debolezza, definitivamente maturo e determinato; un uomo (o una donna) refrattario all’ironia, all’umorismo; perché si prende sul serio, è rigido, e, in quanto tale, è comico (per gli altri). Anzi è grottesco, perché è comico e drammatico al tempo stesso. Provoca il riso amaro, il riso senza gioia, il riso forzato (…sardonico?).

L’uomo identitario è ridotto a essere giusto un «rappresentante» della «comunità» a cui «appartiene». Però mi chiedo come un uomo possa accontentarsi d’esser soltanto una
rappresentazione. In fondo, l’identità non è nient’altro che la rappresentazione che un individuo dà di sé stesso, è la sua immagine. Ma un’immagine è una ripetizione, una riproduzione, una duplicazione della realtà, inevitabilmente imprecisa e semplificata, possibile soltanto riconducendo le differenze alla similitudine e lo sconosciuto al conosciuto. Insomma, «la rappresentazione cattura la realtà con una rete dalle maglie tanto larghe che i pesci piccoli ci passano attraverso» (e non sarà un caso che i pesci piccoli sono sempre i piú buoni…). In questo modo blocca il pensiero della differenza, che è all’origine dell’arte e della scienza.
L’identità e la rappresentazione c’illudono che ci sia una realtà stabile e solida, e cosí facendo ci consolano, c’istupidiscono, ci distolgono dall’esercizio critico del pensiero, e ci rendono politicamente disabili.
Insomma, queste due nozioni sono povere e falsamente realiste, politicamente reazionarie. Sono nozioni vigliacche, sorte dalla paura del presente. Quella contemporaneità del métissage –per dirla sempre con Laplantine–, del meticciato, dell’ibridazione, che autori geniali come Kafka, Beckett, Pessoa, Joyce, Artaud, Carmelo Bene, e, perché no, Sergio Atzeni hanno saputo cogliere e interpretare egregiamente nelle loro opere.

Ma non voglio rendere le cose piú semplici di quelle che sono. È indiscutibile che la globalizzazione economica e culturale abbia portato a un impoverimento impressionante del patrimonio di diversità e complementarità delle culture mondiali. Bandinu e Sedda hanno piú volte sottolineato l’esigenza, anche per i sardi, di conciliare il globale col locale, di realizzare il cosiddetto «glocale». Se si sente il bisogno di parlare di «identità sarda», di «sardità», è perché c’è indubbiamente un diffuso
sentimento di perdita, e quindi d’angoscia, di sradicamento, di dis(-)integrazione. Sentimenti che abbiamo il dovere di rilevare, ma che dobbiamo sopratutto saper interpretare. E per saperlo fare nel migliore dei modi dobbiamo scegliere le parole e le direzioni di senso appropriate.
Dice Laplantine:

La specificità di una cultura o di un individuo è indiscutibile, ma bisogna tener presente che questa proviene dalle infinite combinazioni che si possono produrre, dalla riformulazione di molteplici eredità, che non sono mai delle essenze, ma semmai dei processi di acquisizione, elaborazione e interpretazione costanti.

Quindi propongo a tutti voi di farla finita col concetto d’identità. Di eliminarlo dal vocabolario delle scienze sociali. Di sostituirlo, di volta in volta, con locuzioni piú giuste, che potranno essere, chessò… «senso d’appartenenza», piuttosto che «sentimento comunitario», «consapevolezza culturale», piuttosto che «coscienza nazionale», «pensiero/sentimento della differenza». O perlomeno, quest’identità problematizziamola, relativizziamola il piú possibile, tenendo sempre bene a mente che le «crisi d’identità», i «disturbi dell’identità» sono delle malattie, in quanto tali passeggere (si spera!), e che il «sentimento dell’identità» è solo un momento necessario nello sviluppo cognitivo d’un bambino, che ha certamente bisogno di riconoscersi in quanto individuo per potersi relazionare in modo sano con le persone e gli oggetti attorno a lui.

Una volta cosciente di sé, però, l’essere umano guarda avanti, e se guarda indietro lo fa solo per capire qual è il senso del suo percorso, qual è la prossima direzione da prendere. Un uomo sufficientemente maturo (ma abbastanza innamorato della propria immaturità da non cascare a terra come, appunto, una «pera cotta») si rende conto di non essere soltanto il prodotto di un’unione di gameti, con addosso il vestito dell’educazione e i sedimenti mentali d’una serie d’esperienze; un uomo sufficientemente (im)maturo capisce che lui è anche –e forse sopratutto–
quello che gli manca, quel desiderio che lo muove verso l’ignoto, verso la costruzione d’un altro sé. Alla faccia dell’identità! L’identità è lo specchio fin troppo realista, è il «bobbottu» che lo perseguita, che vuole acchiapparlo per dirgli «tu sei cosí, tu sei questo, hai tutti questi limiti e queste debolezze, non sarai mai altro, rassegnati!». L’identità –altroché– bisogna lasciarsela indietro, depistarla, abbandonarla sul molo con tutti i suoi pesanti bagagli!

Lo stesso succede a una collettività nazionale: deve riconoscersi, deve essere consapevole della propria «individualità» per potersi rapportare serenamente e costruttivamente con le altre comunità nazionali. Ma questo dovrebbe essere solo un passaggio necessario. Una volta conquistata questa coscienza, non c’è identità che tenga: c’è solo «sa virtudi de s’amori», «la viltú di l’amori» (ecco il «lemma» che Franciscu Sedda c’invita a reintrodurre nel nostro vocabolario personale e collettivo), c’è il desiderio d’unione e di scoperta: il viaggio avvincente d’una persona o d’un popolo libero, e possibilmente felice.




Riflessione di Daniela Cuncu Mostallino



La prima volta che ho letto il saggio di Franciscu Sedda, “i sardi sono capaci di amare” è stata quasi cinque mesi fa, più o meno all’uscita del libro. L’ho letto in un solo giorno, rischiando di affogare in un mare di gioia consapevole. Una volta concluso, ricordo di essere andata al computer e aver scritto un piccolo commento sotto altri commenti, sulla bacheca di Franciscu. 
Non era la prima volta che leggevo uno dei suoi libri, infatti, dopo aver letto “la vera storia della bandiera dei sardi”, gli avevo postato una riflessione che riassumeva il mio stato d’animo di allora, quando ancora il mio approccio con l’indipendentismo era a uno stadio primordiale e meno consapevole di quello attuale. Meno consapevole, ma in che senso? Ora, mi viene in mente che ero sovrastata da emozioni forti, come se l’idea travolgente di quello che mi stava accadendo fosse rimasta in un angolo di memoria, un luogo dipinto in un muro della mia mente chiuso a chiave in una stanza. La chiave per aprire la porta era il senso. Il senso perduto, che è quello che ti orienta e spinge verso una direzione ben precisa. Il senso che mi ha spinto ad aprire una porta qualsiasi della mia mente, o apparentemente qualsiasi, e dove i miei occhi si sono all’improvviso spalancati e hanno esclamato eureka! Mi sono ritrovata, mi ero persa. Avevo perso il senso della realtà e questo mi rendeva cieca in un mondo che non mi portava da nessuna parte. La curiosità morbosa e impulsiva per quello che poteva esistere oltre il mare, mi aveva tolto la libertà di conoscere quello che avevo intorno. E non lo vedevo, dunque mi ci perdevo. E poiché non trovavo la strada, ne imboccavo sempre una nuova, ma mai quella giusta. Questa, era rimasta chiusa a chiave, fino a quando, un giorno, che non era un solo giorno, ma una vita intera, quella porta ha bussato da me e io ho aperto. È bastato aprire per fare entrare i colori. La stanza in realtà non era una stanza, ma un mondo inclusivo di una e più stanze aperte, spazi. Ero io a essere chiusa in una stanza, e quello che guardavo dal mio spazio angusto, era un macrocosmo incompleto. Un mondo che non percepiva la propria origine, un mondo asettico. Ora, queste considerazioni a posteriori, sono frutto di uno svisceramento che è avvenuto nell’arco di un anno. È stato proprio un anno fa che scrissi la prima frase vera sulla mia sarditudine. Ed è da quel punto in poi che la mia consapevolezza è cresciuta, andando di pari passo con il mio senso di responsabilità. Mi sono chiesta tante volte che cosa volesse dire essere responsabili. Chi è la persona responsabile? Forse quella che osserva le regole e non sbaglia mai? E se così fosse, di quali regole stiamo parlando e chi le ha fatte, e siamo davvero sicuri che siano regole giuste? Le regole non sono tali punto e basta. Bisogna inserirle in un contesto, ogni cosa ha un suo senso preciso, e le regole le fanno tutti, anche i criminali. Per cui, la responsabilità, prescinde dalle regole imposte da chicchessia. La responsabilità fa parte di ognuno di noi, è una cosa intima, o meglio, parte dalla nostra coscienza e si eleva alla collettività. Diventa partecipe del mondo, si snoda in un cammino che non termina nell’uscio di casa nostra, ma va oltre, s’inoltra in zone lontane da noi, pur restando con noi, perché parte stessa di noi. È quello che potremmo chiamare un principio primordiale di cui non si conoscono le regole precise, perché queste ultime, in effetti, scaturiscono dal principio stesso. Ecco il motivo per cui tante volte, non si riesce a spiegare esattamente il senso di quello che si prova, perché esso è come un embrione che si sta evolvendo fino a divenire realtà. La realtà è responsabilità, la responsabilità è la sostanza di ogni individuo che non attinge da regole esterne o doveri prestabiliti, ma li fonda essa stessa nel rispetto di ognuno di noi.

Dopo aver scritto quella frase, ho iniziato a intrecciare relazioni con altre persone che scrivevano della loro esperienza. Ognuno aveva percorso il proprio cammino per approdare a quella spiaggia consapevole. Attraverso la propria autodeterminazione, altri sono arrivati a concepire le stesse idee. Quelle idee di mondo, che sembravano isolate dal mondo, ma che in realtà erano vive e vivide di colore, reali, tanto da farci credere di essere in una realtà surreale, perché poggiavamo i nostri pensieri sopra terreni inesistenti, grigi, inventati ad hoc da altri, con le loro regole, quelle che erano state loro impartite da altri ancora, che non conoscevano la responsabilità che sentivamo noi, perché provenivano da altre storie e volevano che anche noi ne facessimo parte, con la nostra responsabilità, quella che non mettevamo in pratica sul nostro stesso terreno, perché depredati di ogni possibile senso di responsabilità, di realtà (depredati della nostra stessa intima coscienza). Colonizzati dal non senso, inclusi in un luogo che ci escludeva dalla nostra matrice. Ecco come il tempo ha ammazzato la nostra esistenza, il tempo che abbracciava altro tempo, fagocitando la nostra storia, il nostro cammino. Per inerzia, la nostra responsabilità si trascinava senza senso in una realtà che non le apparteneva. E da qui è nata l’incoscienza che ha assopito il nostro sapere, la nostra indole. La testa molle, un continuo perpetuarsi di idee sconnesse, risposte non adeguate a domande smarrite. E un sentore negativo che pervadeva i sentimenti. L’odio è forse quello che esaltava più di tutti il sapore amaro di questa isola, idea, realtà, responsabilità perduta, nascosta, soffocata, sotterrata. E l’odio ha accompagnato la cattiveria e la frustrazione che crescevano nelle persone. Diceva un grande intellettuale romeno che cita Franciscu stesso nel suo libro, “chi si odia non è umile”, perché l’odio, dico io, è un sentimento acerrimo, esaltato, forte, provare odio per se stessi significa innalzarsi a monumento mostruoso della propria incapacità di amarsi e di amare il prossimo. Significa rendere irreale e irresponsabile il senso della propria vita. Irreale di idee falsate dal tempo e contrapposte alla realtà ultima del singolo che esiste, all’individuazione di sé. Irresponsabile a causa del suo essere irreale, finto, inventato, bugiardo. Sinonimi tutti di una stessa idea di dipendenza, una dipendenza che non può far altro che degenerare se non si rende conto responsabilmente di essere mutevole, di poter ridivenire, rinascere indipendenza. Indipendenza mentale prima di tutto. Presa di coscienza, responsabilità, realtà. Se partiamo dal presupposto che non c’è uno stato fisso delle cose, ma che con il nostro senso di responsabilità possiamo attuare un cambiamento, niente sarà più cieca dipendenza. Ogni atto del nostro quotidiano, per quanto inizialmente potrà sembrare vano e fine a se stesso, sarà in realtà (in una realtà responsabile perché consapevole, viva, perché attiva) un tassello di un infinito e continuo cambiamento verso il mondo che ci circonda e che fa da ponte verso il mondo intero. Non isolati, come nelle menti dipendenti da idee false e irresponsabili, ma collegati a più livelli che si combinano tra loro, senza escludersi a vicenda, integrandosi.

Dopo aver letto il libro questa seconda volta, la mia idea era quella di scrivere un sunto analizzando i punti più interessanti secondo me, al fine di riuscire a spiegare con parole mie quello che il libro in sostanza voleva esprimere. Poi, ho aperto la pagina di word, e dalla prima parola mi sono accorta che non avrei scritto niente di quello che avevo pensato che avrei scritto, non avrei più estrapolato parti del libro per leggerle e analizzarle insieme, ad alta voce. Ho capito che avrei vomitato le mie emozioni sul foglio, non concentrandomi più su quello di cui avrei voluto parlare, ma lasciando che le parole costruite sulle mie emozioni esprimessero quello che davvero mi ha colpita e mi ha fatto riflettere di questo libro. Il senso, mi ha nuovamente diretto verso il centro di attrazione, verso la parte più vergine di me, nuda e consapevolmente feconda. Capace di amare.


TzdA Assemini